Eserciti di pagine cosparse di parole intrecciate, come le raffinate trame di un broccato prezioso e raro. Stanno lì, stagliate lungo i terrapieni che sostengono i barlumi spenti del mio sguardo assente. Stanno lì, a difesa della mia vuota dimora. Ultimo baluardo di un patetico abbozzo di sussulti e sensazioni.
Sono presenze. Sono spiriti che mi guardano, mi osservano, mi accarezzano affettuosamente la testa e il cuore.
Vago dentro di loro, mi perdo, viaggio, fuggo, scopro universi sorprendenti, nuovi e cangianti. Sono il mio unico nutrimento.
Gli occhi sono diventati la mia bocca. E la mia bocca, ormai, è uno scrigno chiuso, serrato ermeticamente con chiavistelli di silenzio e solitudine. Le mie pupille sono perle scintillanti che rotolano e rimbalzano tra le macchie di inchiostro e ne distillano, avide e impazienti, il succo inebriante che tracima dagli arabeschi procaci e turgidi delle parole.
Unico appetito che l'anima ancora avverte. Unica sete. Unica vaga pulsazione delle viscere che possa avvicinarsi a qualcosa che somigli a un'emozione. Unico calore, unica compagnia.
Non esiste altro al di là di questi dedali infiniti di parole che ingurgito e vomito. Ingurgito e vomito, come fiera selvaggia che tenti di placare la morsa insopportabile della fame.
Illusoria panacea a questa ostinata follia insensata che si chiama vita.
giovedì 18 settembre 2008
Il signore degli anelli, o delle catene
Gli anelli. Belli, perfetti, tondi, lucenti, metallici, tintinnanti.
Rammentano la perfezione matematica ed esoterica del cerchio, che non ha inizio nè fine, e dunque non inciampa nel tempo, nè nei suoi ricatti silenti, nè nelle sue trappole fosche e frivole.
Ma quando gli anelli si incatenano l'uno nell'altro, tutto dipende dal primo. E' sempre il primo che determina la natura e la foggia di tutti gli altri.
A volte ci perdiamo e non riusciamo più a trovare l'inizio, il bandolo, della splendida collana, o della stritolante catena.
Ci troviamo ingarbugliati tra le trame di un filo di Arianna che si srotola e si arrotola forsennatamente, arrampicandosi lungo vortici di vita e magnificenza, o lungo spirali di morte, meschinità e rancore.
Tutto dipende dal primo. Dopo è un susseguirsi minaccioso o inebriante, un proliferare di cocci taglienti e osceni, o di morbidi petali di rosa.
Una volta impresso il movimento e forgiato il metallo, tutto va da sè, non possiamo più dirigere nulla. Rimaniamo intrappolati, come mosche nelle tele dei ragni, dentro nuvole di zucchero filato, o in mezzo a incubi torvi e tuguri laidi, senza poter più modificare lo scenario, per quanto ci arrovelliamo, per quanto ci dimeniamo.
E non ci ricordiamo più da dove siamo partiti e perchè.
Quando la scena non ci piace più, quando la degenerazione si fa ombra acida e amara, bisogna spezzare il cerchio in un punto qualsiasi e ricominciare, mutando rotta e prospettiva.
Come nel cinema: si rigira, si riparte daccapo, si rifà tutto. Ammesso che sia possibile rifare tutto.
Le risonanze delle azioni e degli accadimenti perdurano, aleggiano nell'aria e nell'anima anche per anni. E così le ferite, le sconfitte, le umiliazioni, le gioie e i dolori. Non basta un attimo per colmare di terra e sabbia crateri di dissennatezza e stoltezza. E perdonare davvero è l'atto più nobile e più ostico che un essere umano possa compiere.
E' necessario voltare la pagina che si è consunta, che si è logorata, di cui conosciamo già fin troppo bene ogni virgola, che non ci stupisce più, non ci emoziona più, non ci racconta più niente. Ma non sempre si riesce a interrompere l'ubriachezza del non-senso, a scalfire le cascate di pattume, a ritrovare l'incipit della bellezza, della musica e del colore.
Il primo anello. Prestare cura a un piccolo cerchio insulso e apparentemente insignificante, a volte, ci salva dal trovarsi intrappolati in spirali di terrificanti catene di dolore.
Rammentano la perfezione matematica ed esoterica del cerchio, che non ha inizio nè fine, e dunque non inciampa nel tempo, nè nei suoi ricatti silenti, nè nelle sue trappole fosche e frivole.
Ma quando gli anelli si incatenano l'uno nell'altro, tutto dipende dal primo. E' sempre il primo che determina la natura e la foggia di tutti gli altri.
A volte ci perdiamo e non riusciamo più a trovare l'inizio, il bandolo, della splendida collana, o della stritolante catena.
Ci troviamo ingarbugliati tra le trame di un filo di Arianna che si srotola e si arrotola forsennatamente, arrampicandosi lungo vortici di vita e magnificenza, o lungo spirali di morte, meschinità e rancore.
Tutto dipende dal primo. Dopo è un susseguirsi minaccioso o inebriante, un proliferare di cocci taglienti e osceni, o di morbidi petali di rosa.
Una volta impresso il movimento e forgiato il metallo, tutto va da sè, non possiamo più dirigere nulla. Rimaniamo intrappolati, come mosche nelle tele dei ragni, dentro nuvole di zucchero filato, o in mezzo a incubi torvi e tuguri laidi, senza poter più modificare lo scenario, per quanto ci arrovelliamo, per quanto ci dimeniamo.
E non ci ricordiamo più da dove siamo partiti e perchè.
Quando la scena non ci piace più, quando la degenerazione si fa ombra acida e amara, bisogna spezzare il cerchio in un punto qualsiasi e ricominciare, mutando rotta e prospettiva.
Come nel cinema: si rigira, si riparte daccapo, si rifà tutto. Ammesso che sia possibile rifare tutto.
Le risonanze delle azioni e degli accadimenti perdurano, aleggiano nell'aria e nell'anima anche per anni. E così le ferite, le sconfitte, le umiliazioni, le gioie e i dolori. Non basta un attimo per colmare di terra e sabbia crateri di dissennatezza e stoltezza. E perdonare davvero è l'atto più nobile e più ostico che un essere umano possa compiere.
E' necessario voltare la pagina che si è consunta, che si è logorata, di cui conosciamo già fin troppo bene ogni virgola, che non ci stupisce più, non ci emoziona più, non ci racconta più niente. Ma non sempre si riesce a interrompere l'ubriachezza del non-senso, a scalfire le cascate di pattume, a ritrovare l'incipit della bellezza, della musica e del colore.
Il primo anello. Prestare cura a un piccolo cerchio insulso e apparentemente insignificante, a volte, ci salva dal trovarsi intrappolati in spirali di terrificanti catene di dolore.
mercoledì 3 settembre 2008
Contrappunti disarticolati
Fatica. Quella antica, che piega ossa e muscoli, che rende stremati ma grondanti di un senso cosmico.
Fatica. Ancestrale, vecchia come il mondo, che noi ormai abbiamo dimenticato in fondo a una cassapanca impolverata.
Sembra un gioco un po' finto e forzato questa smania di recuperare certi ritmi, certi cicli, certe leggi.
Isteria scalpitante da noiose e annoiate ombre urbane.
Guardo la cima della montagna, cosparsa di nuvole terse: ero arrivata fin lassù, ce l'avevo fatta a inerpicarmi sospingendo la pesante pietra fin sulla vetta; ma poi, come per Sisifo, il mio masso è ripiombato a valle, rotolando impazzito come un'enorme biglia minacciosa, sulle piste cementificate dell'oscurità, tra le lande piatte dove ogni giorno è uguale a un altro, e il sentiero è trito e obbligato, senza più colore e fantasia.
Il rumore dell'acqua mi culla, mi rapisce. L'acqua è paziente, saggia e solerte, leviga e smussa la roccia, giorno dopo giorno; la plasma, la corrode, e non ha fretta, nè smania, perchè sa che la forza sta in quel fluire lento e inesorabile, senza contrapposizioni.
Qui tutto sembra semplice, immediato, logico, ovvio.
Una foglia è una foglia, un fiore è un fiore. Un uomo è un uomo. Non c'è spazio per la tortuosità.
Un grande maestro dalla lunga e folta barba bianca mi ha distolto, per un attimo, dalle cupe solitudini delle mie oscene ossessioni. Mi ha trascinato lungo dimensioni giocose e sapienti, di seducenti scoperte, mervigliosi prodigi, stupefacenti conquiste.
Ma l'uragano, nella notte, ricomincia a roteare.
Si aggroviglia, l'infame mostro, attorno ai suoi stessi tentacoli.
Bisogna andare in basso, nel fondo del fondo, immergersi e sguazzare nei gironi infernali per poter risalire alla luce e vederla davvero, non per semplice abitudine, ma perchè ci cosparge di bellezza.
Bisogna conoscere i propri biechi demoni e farsi violentare da essi, inermi e risoluti, come cerbiatti sull'altare sacrificale, per poter poi fare un autodafè della propria stolta e riottosa sofferenza.
Conto i sassi e i fili d'erba e tutto ha un senso che mi comprende e mi avvolge, esistente prima di me, e che esisterà anche dopo, trascendendomi. In questo senso mastodontico cerco di infilarmi, come un geco si infila agile nei buchi dei muri. Ma a volte mi sfugge, a volte lo dimentico e lo disprezzo.
L'attesa attende se stessa. La dea della pazienza sorride sardonica: è necessario inciampare nelle nostre paure, e stare immobili a lasciarle decantare.
Le assenze sono inciampi di presenze, disgregazioni distratte del tempo, ma la presenza non si può anticipare, nè procrastinare. Forse si può inventare, sfidando l'illusione della realtà.
L'assenza è una Medusa che si volta e ci trasforma in statue di pietra.
Invoco Atena, dunque, che mi faccia dono di uno scudo lucente come specchio, così, come Perseo, potrò uccidere la nefasta Gorgone.
Fatica. Ancestrale, vecchia come il mondo, che noi ormai abbiamo dimenticato in fondo a una cassapanca impolverata.
Sembra un gioco un po' finto e forzato questa smania di recuperare certi ritmi, certi cicli, certe leggi.
Isteria scalpitante da noiose e annoiate ombre urbane.
Guardo la cima della montagna, cosparsa di nuvole terse: ero arrivata fin lassù, ce l'avevo fatta a inerpicarmi sospingendo la pesante pietra fin sulla vetta; ma poi, come per Sisifo, il mio masso è ripiombato a valle, rotolando impazzito come un'enorme biglia minacciosa, sulle piste cementificate dell'oscurità, tra le lande piatte dove ogni giorno è uguale a un altro, e il sentiero è trito e obbligato, senza più colore e fantasia.
Il rumore dell'acqua mi culla, mi rapisce. L'acqua è paziente, saggia e solerte, leviga e smussa la roccia, giorno dopo giorno; la plasma, la corrode, e non ha fretta, nè smania, perchè sa che la forza sta in quel fluire lento e inesorabile, senza contrapposizioni.
Qui tutto sembra semplice, immediato, logico, ovvio.
Una foglia è una foglia, un fiore è un fiore. Un uomo è un uomo. Non c'è spazio per la tortuosità.
Un grande maestro dalla lunga e folta barba bianca mi ha distolto, per un attimo, dalle cupe solitudini delle mie oscene ossessioni. Mi ha trascinato lungo dimensioni giocose e sapienti, di seducenti scoperte, mervigliosi prodigi, stupefacenti conquiste.
Ma l'uragano, nella notte, ricomincia a roteare.
Si aggroviglia, l'infame mostro, attorno ai suoi stessi tentacoli.
Bisogna andare in basso, nel fondo del fondo, immergersi e sguazzare nei gironi infernali per poter risalire alla luce e vederla davvero, non per semplice abitudine, ma perchè ci cosparge di bellezza.
Bisogna conoscere i propri biechi demoni e farsi violentare da essi, inermi e risoluti, come cerbiatti sull'altare sacrificale, per poter poi fare un autodafè della propria stolta e riottosa sofferenza.
Conto i sassi e i fili d'erba e tutto ha un senso che mi comprende e mi avvolge, esistente prima di me, e che esisterà anche dopo, trascendendomi. In questo senso mastodontico cerco di infilarmi, come un geco si infila agile nei buchi dei muri. Ma a volte mi sfugge, a volte lo dimentico e lo disprezzo.
L'attesa attende se stessa. La dea della pazienza sorride sardonica: è necessario inciampare nelle nostre paure, e stare immobili a lasciarle decantare.
Le assenze sono inciampi di presenze, disgregazioni distratte del tempo, ma la presenza non si può anticipare, nè procrastinare. Forse si può inventare, sfidando l'illusione della realtà.
L'assenza è una Medusa che si volta e ci trasforma in statue di pietra.
Invoco Atena, dunque, che mi faccia dono di uno scudo lucente come specchio, così, come Perseo, potrò uccidere la nefasta Gorgone.
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