venerdì 30 dicembre 2011

RISVEGLIO DELLA POESIA

Nel mare, cielo inverso, una lampara. Un baluginio flebile, uno sprazzo silenzioso.
E poi una pioggia di stelle che inonda le pupille.
Le palpebre,
pesanti sipari polverosi,
si sollevano come drappi leggeri di piume d’albatro,
e mettono a nudo il mio sguardo. E nello sguardo, milioni di amplessi si consumano palpitanti:
una vertigine di vermiglio che penetra in un oceano di cobalto,
un sole giallo che affonda le sue labbra in un cielo indaco,
una brezza d’argento che si posa sul candore di una rugiada bianca come nettare di fico,una danza folgorante che profuma di spezie.
Passi leggeri di musiche iniziatiche.
Vortici voluttuosi e sensuali, che fanno vibrare i nervi. L’aria diventa pulviscolo denso e lattiginoso, e i miei pensieri si infilano dentro i pertugi di un muro,
come ramarri atterriti.
Divento sensazione pura.
La razionalità è bandita da questa metamorfosi. Orfeo mi ammalia con la sua poesia fantasmagorica,
e io lo seguo, tento di risalire dagli inferi di un mondo plumbeo, senza luce e colori. Non voltarti, Orfeo, non voltarti mai.Euridice ha passi lievi, di velluto, silenziosi e suadenti, come la notte,
devi fidarti della sua presenza,
perché la paura la farà riprecipitare nell’Ade,
in quel gorgo nero da cui l’avevi strappata. Canta, scrivi, suona, danza, dipingi, declama. Ama,
e ama te stesso,
come un Narciso insolente.
Corteggia e conquista la Bellezza,
falla tua, possiedila,
spogliala, ghermisci i suoi segreti ancestrali. Plasmala, trasformarla, mordine la polpa dolce e succosa, fino al nocciolo.
E da uno scampolo di Bellezza, tessi altra Bellezza,fino a che il mondo non ne sia satollo.

IN UN ATTIMO, TUTTO

Aria che fende e attraversa i pensieri,
li frantuma e li rimescola.
Profumo di neve,
di nuovo, di buio lucente.
Gelo che scalda,
penetra nella pelle e fa palpitare le vene.
Nient'altro.
Annuso il vento frizzante come un lupo in attesa.
Ma non aspetto più niente.
Annego la litania boriosa dei rimpianti,
il suono torvo delle illusioni,
l'arroganza impertinente delle speranze.
Qui, in questa notte invernale,
fredda e splendida,
c'è già tutto,
presente, passato e futuro.
Mi abbandono al piacere ineffabile
di sentire
come animale selvatico
ciò che ho intorno.
Forse il tempo è un inganno suadente e saccente,
una linea imperfetta tracciata sulla strada dei sensi,
un paradosso posticcio e anodino.
Qui sta il segreto dell'interezza.
Qui sta la formula alchemica che sbaraglia il dolore.

venerdì 10 dicembre 2010

DI NUOVO E ANCORA

Lama affilata che sfiora la carne. Paura e desiderio si intrecciano, si alimentano, formano sfavillanti filigrane, arabeschi arditi che le mani sfiorano e accarezzano in una notte fredda e diafana. Oscilla un pendolo tra sguardi ambivalenti, carichi di circospezione e delicata armonia. Giro in tondo, e con un tonfo ripiombo lì, nella matassa aggrovigliata di emozioni lontane. La mente tesse una tela di ragno e io vi rimango impigliata come mosca improvvida.
Ma è diverso. Forse. O forse no. Forse gli errori passati sono solo innocui fantasmi erranti, o forse un filo invisibile ci fa inciampare davvero sempre nello stesso luogo, e rimaniamo incagliati infinite volte tra le medesime sabbie mobili.
Canti di profumi inebrianti, nuovi occhi che parlano altre lingue. Altra storia, altri sensi, altra vita.
Si riparte, dopo anni sfilacciati e rarefatti. Ma per dove? Non importa. Si riparte. Fosse anche per un giorno, fosse anche per un altro inferno. Meglio un viaggio impervio che la vacuità stremante della stasi.
Tremore di pelle, pallore di labbra, e il fuoco brucia, crepita, illumina la notte.
Bastava cambiare prospettiva, bastava rompere un guscio stolido, eppure così sottile da essere spezzato da un solo respiro. Un respiro. Aria che irrora le membra, dissangua il dolore.
Bastava guardare oltre, per vedere altre anime, e ritrovare se stessi, come in uno specchio, accarezzando ammalianti riflessi di ciò che eravamo, saremo e potremmo essere.

sabato 1 novembre 2008

Bambina di ieri, bambina di domani

Guardo, da finestre affacciate sull’ambiguità sottile del tempo, due occhi blu che si immergono nel mare, che vi si specchiano fino a confondersi con esso. Sgranano filigrane di lontananza inquieta; si rifrangono in baluginii che divengono dardi di dolcezza scagliati contro nuvole di panna montata, così gustose e allettanti da inebriare le labbra vermiglie dei pensieri. Giocano a inseguire pesci scalpitanti e a inventare collane di alghe e bracciali di conchiglie.
Le risate sono candide ragnatele di salsedine che imprigionano l’eternità della notte, per suggellare speranze future che sono già reali in quello spazio recondito e magico che giace sotto la pelle del mondo consueto e conosciuto .
Dedali di languore solcano la sabbia che odora d’oro, e il pulviscolo dei sogni di domani, come stella che dipinga di sfavillanti colori l’oscurità ammaliante della galassia, sparge pioggia di luce iridescente lungo i sentieri del buio immobile.
Nelle mani piccole e goffe stringo tutto ciò che sarà, tutto ciò che ho già vissuto e che vivrò.
La perfezione esoterica del cerchio si compie tra pupille che parlano con il fiato dell’imperscrutabilità apparente. Oracoli di carne e sangue bruciano l’eresia dei dogmi senza bisogno di arroganti sentenze né di pubblici roghi.
Scolpisco, dentro la sostanza lattiginosa e languida della mia anima, frammenti di un tempo invisibile, di speranze silenziose e tremanti. E la linea che generava eventi asincroni e cacofonici, dove io ero sempre in un luogo e in un tempo diversi da quelli desiderati e immaginati, si trasforma ora in un punto, dove tutto è. Senza distanze, senza incongruenze, senza dicotomie, senza convulse corse e logoranti attese.
Gli elfi, con i loro cappelli obliqui e tintinii di fragorose facezie, escono dalle pagine aride e consunte delle fiabe per diventare scintille di sogni che scherniscono la realtà, avviluppandola con seducenti profumi di meravigliosi paradossi.
Il limite stabilito viene superato. Basta scegliere la temerarietà. Basta scegliere di sciogliere il nodo scorsoio che ci lega all’àncora di paure che spezzano il respiro e la fantasia.
Il nostro veliero può rimanere per sempre attraccato a un porto conosciuto che non cangia mai.
Facciamoci invece pirati intrepidi e impudenti; percorriamo l’oceano della vita a caccia di scorribande palpitanti e tumulti travolgenti.
Buttiamoci, come tuffatori pazzi e sconsiderati, a capofitto giù dalla rupe, per volare altrove, oltre ciò che viene considerato possibile. Le nostre ali non sono di cera: il sole ne è la quintessenza, non le brucia, anzi, ne alimenta la consistenza.
Ogni sguardo ci porta sempre più in alto.
Credevo di essermi affacciata a contemplare i ricordi di un tempo che fu. E invece ciò che sto guardando deve ancora avvenire, eppure è già accaduto.
E’ un gioco sublime e ambivalente di specchi e di audaci e rocamboleschi balzi, avanti e indietro, nell’anima e nel tempo. E percorro viaggi emozionanti e imprevedibili, accovacciata dentro un pallone aerostatico indaco che mi avvolge e mi protegge come un ventre materno.
Attingo a quello sconfinato serbatoio di bellezza che scioglie i grovigli degli Io caparbi e accartocciati dentro grumi di stoltezza, e raccolgo la linfa segreta che dona acqua al fiume, aria ai polmoni, sangue alle vene, luce agli occhi, inesauribile e fantasmagorica fonte di vita.

giovedì 18 settembre 2008

Cibo di parole

Eserciti di pagine cosparse di parole intrecciate, come le raffinate trame di un broccato prezioso e raro. Stanno lì, stagliate lungo i terrapieni che sostengono i barlumi spenti del mio sguardo assente. Stanno lì, a difesa della mia vuota dimora. Ultimo baluardo di un patetico abbozzo di sussulti e sensazioni.
Sono presenze. Sono spiriti che mi guardano, mi osservano, mi accarezzano affettuosamente la testa e il cuore.
Vago dentro di loro, mi perdo, viaggio, fuggo, scopro universi sorprendenti, nuovi e cangianti. Sono il mio unico nutrimento.
Gli occhi sono diventati la mia bocca. E la mia bocca, ormai, è uno scrigno chiuso, serrato ermeticamente con chiavistelli di silenzio e solitudine. Le mie pupille sono perle scintillanti che rotolano e rimbalzano tra le macchie di inchiostro e ne distillano, avide e impazienti, il succo inebriante che tracima dagli arabeschi procaci e turgidi delle parole.
Unico appetito che l'anima ancora avverte. Unica sete. Unica vaga pulsazione delle viscere che possa avvicinarsi a qualcosa che somigli a un'emozione. Unico calore, unica compagnia.
Non esiste altro al di là di questi dedali infiniti di parole che ingurgito e vomito. Ingurgito e vomito, come fiera selvaggia che tenti di placare la morsa insopportabile della fame.
Illusoria panacea a questa ostinata follia insensata che si chiama vita.

Il signore degli anelli, o delle catene

Gli anelli. Belli, perfetti, tondi, lucenti, metallici, tintinnanti.
Rammentano la perfezione matematica ed esoterica del cerchio, che non ha inizio nè fine, e dunque non inciampa nel tempo, nè nei suoi ricatti silenti, nè nelle sue trappole fosche e frivole.
Ma quando gli anelli si incatenano l'uno nell'altro, tutto dipende dal primo. E' sempre il primo che determina la natura e la foggia di tutti gli altri.
A volte ci perdiamo e non riusciamo più a trovare l'inizio, il bandolo, della splendida collana, o della stritolante catena.
Ci troviamo ingarbugliati tra le trame di un filo di Arianna che si srotola e si arrotola forsennatamente, arrampicandosi lungo vortici di vita e magnificenza, o lungo spirali di morte, meschinità e rancore.
Tutto dipende dal primo. Dopo è un susseguirsi minaccioso o inebriante, un proliferare di cocci taglienti e osceni, o di morbidi petali di rosa.
Una volta impresso il movimento e forgiato il metallo, tutto va da sè, non possiamo più dirigere nulla. Rimaniamo intrappolati, come mosche nelle tele dei ragni, dentro nuvole di zucchero filato, o in mezzo a incubi torvi e tuguri laidi, senza poter più modificare lo scenario, per quanto ci arrovelliamo, per quanto ci dimeniamo.
E non ci ricordiamo più da dove siamo partiti e perchè.
Quando la scena non ci piace più, quando la degenerazione si fa ombra acida e amara, bisogna spezzare il cerchio in un punto qualsiasi e ricominciare, mutando rotta e prospettiva.
Come nel cinema: si rigira, si riparte daccapo, si rifà tutto. Ammesso che sia possibile rifare tutto.
Le risonanze delle azioni e degli accadimenti perdurano, aleggiano nell'aria e nell'anima anche per anni. E così le ferite, le sconfitte, le umiliazioni, le gioie e i dolori. Non basta un attimo per colmare di terra e sabbia crateri di dissennatezza e stoltezza. E perdonare davvero è l'atto più nobile e più ostico che un essere umano possa compiere.
E' necessario voltare la pagina che si è consunta, che si è logorata, di cui conosciamo già fin troppo bene ogni virgola, che non ci stupisce più, non ci emoziona più, non ci racconta più niente. Ma non sempre si riesce a interrompere l'ubriachezza del non-senso, a scalfire le cascate di pattume, a ritrovare l'incipit della bellezza, della musica e del colore.
Il primo anello. Prestare cura a un piccolo cerchio insulso e apparentemente insignificante, a volte, ci salva dal trovarsi intrappolati in spirali di terrificanti catene di dolore.

mercoledì 3 settembre 2008

Contrappunti disarticolati

Fatica. Quella antica, che piega ossa e muscoli, che rende stremati ma grondanti di un senso cosmico.
Fatica. Ancestrale, vecchia come il mondo, che noi ormai abbiamo dimenticato in fondo a una cassapanca impolverata.
Sembra un gioco un po' finto e forzato questa smania di recuperare certi ritmi, certi cicli, certe leggi.
Isteria scalpitante da noiose e annoiate ombre urbane.
Guardo la cima della montagna, cosparsa di nuvole terse: ero arrivata fin lassù, ce l'avevo fatta a inerpicarmi sospingendo la pesante pietra fin sulla vetta; ma poi, come per Sisifo, il mio masso è ripiombato a valle, rotolando impazzito come un'enorme biglia minacciosa, sulle piste cementificate dell'oscurità, tra le lande piatte dove ogni giorno è uguale a un altro, e il sentiero è trito e obbligato, senza più colore e fantasia.
Il rumore dell'acqua mi culla, mi rapisce. L'acqua è paziente, saggia e solerte, leviga e smussa la roccia, giorno dopo giorno; la plasma, la corrode, e non ha fretta, nè smania, perchè sa che la forza sta in quel fluire lento e inesorabile, senza contrapposizioni.
Qui tutto sembra semplice, immediato, logico, ovvio.
Una foglia è una foglia, un fiore è un fiore. Un uomo è un uomo. Non c'è spazio per la tortuosità.
Un grande maestro dalla lunga e folta barba bianca mi ha distolto, per un attimo, dalle cupe solitudini delle mie oscene ossessioni. Mi ha trascinato lungo dimensioni giocose e sapienti, di seducenti scoperte, mervigliosi prodigi, stupefacenti conquiste.
Ma l'uragano, nella notte, ricomincia a roteare.
Si aggroviglia, l'infame mostro, attorno ai suoi stessi tentacoli.
Bisogna andare in basso, nel fondo del fondo, immergersi e sguazzare nei gironi infernali per poter risalire alla luce e vederla davvero, non per semplice abitudine, ma perchè ci cosparge di bellezza.
Bisogna conoscere i propri biechi demoni e farsi violentare da essi, inermi e risoluti, come cerbiatti sull'altare sacrificale, per poter poi fare un autodafè della propria stolta e riottosa sofferenza.
Conto i sassi e i fili d'erba e tutto ha un senso che mi comprende e mi avvolge, esistente prima di me, e che esisterà anche dopo, trascendendomi. In questo senso mastodontico cerco di infilarmi, come un geco si infila agile nei buchi dei muri. Ma a volte mi sfugge, a volte lo dimentico e lo disprezzo.
L'attesa attende se stessa. La dea della pazienza sorride sardonica: è necessario inciampare nelle nostre paure, e stare immobili a lasciarle decantare.
Le assenze sono inciampi di presenze, disgregazioni distratte del tempo, ma la presenza non si può anticipare, nè procrastinare. Forse si può inventare, sfidando l'illusione della realtà.
L'assenza è una Medusa che si volta e ci trasforma in statue di pietra.
Invoco Atena, dunque, che mi faccia dono di uno scudo lucente come specchio, così, come Perseo, potrò uccidere la nefasta Gorgone.

giovedì 21 agosto 2008

Agli dei ulteriori, distratti manipolatori di eresie

Un incrocio di dita e setole, per far risaltare il colore, per crearlo e accarezzarlo, senza storpiature. Così si profana e si svergina un manto di candido cotone. Così mi hanno insegnato.
Ma hanno dimenticato di insegnarmi ad ammazzare i sogni senza farli agonizzare.
Barlumi di pensieri sconnessi e scoscesi rotolano a valle dalla cima del monte. Precipitano giù, sempre più giù, fino a essere ingurgitati dagli Inferi.
Rumori di parole sospesi nel tempo e nella memoria.
Ho imparato a tingere di arcobaleno le stanze della noia e della rabbia.
Ho imparato a ridere fino a increspare le viscere.
Ho imparato a gustare la mia perversione senza limiti.
Ho imparato a sognare.
Ora ho dimenticato tutto.
Ho coltivato la follia, come superbo e selvatico fiore, l'ho impastata con il buio ruggente di notti inebrianti.
Mi guardavo in uno specchio di sensualità e languore, e mi trovavo bella. Ero uno sfrontato e insolente Narciso.
Due sguardi, una sola anima.
Un cerchio è perfetto perchè non ha inizio nè fine, è un estasiante palindromo.
Aderire al sogno, esserci dentro: sortilegio sconosciuto prima d'allora.
Indossavo la stupefacente nudità di una seconda pelle. Così io ero due. E due diventavano uno. Non c'era più distinzione.
Questa è la perfezione: come il cerchio, io non iniziavo e non finivo. Io ERO, non avevo limiti.
Nel mistero imperscrutabile dell'ontologia umana esistono la bellezza della fusione e la magia della duplicazione senza separazione, e si generano i paradossali ossimori della dualità nell'unità e dell'unità nella dualità.
Meraviglia che può divenire incubo.
Un Orfeo cromatico mi ha depredato, mi ha deturpato lo sguardo, mi ha rubato la vita. Vago a tentoni nell'oscurità, la cerco, ma non la trovo: mi è scivolata via dai buchi dell'anima.
La mia anima ora è un muro bosniaco trivellato di pallottole di kalashnikov. Vi ci danzano orde di vermi tumefatti.
Nel buio c'è solo il buio, spesso sipario adornato di nulla. I miei occhi sono spalancati ma è come fossero chiusi sul silenzio.
Caronte ha sogghignato, ha guardato dentro questi occhi storpi e stolti e me li ha trafitti con dardi infuocati. O forse erano già ciechi, da sempre. Vedere senza guardare è la peggior nemesi che esista. Sono inciampata tra le braccia di Morfeo, il dio del sonno.
Ottundimento dei sensi: Venere è una serpe strisciante e voluttuosa che seduce e inganna. E dopo baccanali sfrenati e munificenze di ogni sorta ci sospinge in un torvo e greve esilio.
Dall'altare del tempio sacro a Minerva sgorga un sangue nero. Il mio. Sangue a fiotti: rutilante e ruvido mare che innaffia la gola arida e avida, come un vino che stilli scintille di sciagure inenarrabili.
Dov'e' il bandolo? Arianna porge il filo a un fantasma, non a un eroe.
Ognuno ha il suo minotauro.
Ma io non sono Teseo.
E' il mostro che mi divora o sono io che mi flagello lungo schegge stridenti di allucinazioni deliranti?
Ridere. Ridere conduce a ridere, di sè e degli altri, del tripudio osceno di miserie e mistificazioni. Unica salvezza.
Non c'era niente là dentro, eppure c'era tutto.
Il labirinto sono io. Il mostro sono io.
Non bisognerebbe mai sopravvvivere a certe cose.
Certe cose ci dovrebbero uccidere, non lasciarci in vita come naufraghi disperati e dispersi, come ombre che brancolano alla rinfusa, dilaniate dalla follia e dal dolore.

"Tutti morimmo a stento
ingoiando l'ultima voce
tirando calci al vento
vedemmo sfumare la luce"

F. De Andrè, "Tutti morimmo a stento"

martedì 19 agosto 2008

Diario di viaggio

Viaggio. Tentativo di risalire dal gorgo buio della "saudade".
Sangue dentro le vene che anzichè raggrumarsi in secchi e opachi ristagni immobili, si scioglie come le nevi al primo timido sole di marzo.
Piccole variazioni.
Vaghi sussulti dinnanzi a mondi ignoti che ci catturano e ci incantano.
Riuscire, di nuovo, per brevi attimi, a sentire la Bellezza che scorre tra le viscere compresse e schiacciate dal clamore costante e scrosciante del dolore.
Ma sono fugaci gli sprazzi di vita, perchè la memoria è un fardello che ci insegue ovunque. E ci stana sempre. Anche se ci nascondiamo dentro bunker ermetici, lei ci trova, annusa, come animale selvatico, il nostro rancido odore di anime marce, corrose dalle ossessioni, e ci stritola tra i suoi tentacoli mefitici.
Usa ogni pretesto, ogni inganno, l'infame furia furente, per insinuarsi come serpe velenosa nelle intercapedini dei pensieri.
Ogni luogo è colmo di ami ricurvi a cui rimangono incagliati frammenti di passato e strascichi di struggente dolcezza. Persino laggiù, persino a chilometri di distanza.
Mi sono immersa dentro cieli lontani, sconosciuti e volubili, illudendomi che essi fossero intonsi, sgombri da ingombri e logori squarci di opprimenti ricordi.
Ombre lunghe, triste companatico della sera, da tagliare con coltelli affilati per ingoiarne le carni.
Alter ego impavido, appiccicato alla mia pelle. Gemello omozigote sempre con me, fedele compagno di incubi. Chi è? Sono io? Quante sono le identità possibili?
Una, nessuna e centomila... E si consuma il teatro della vita.
Gioco pericolante e pericoloso.
I sassi che si lanciano nel mare lo scuotono, ne corrugano la superficie, creano un brivido di rottura che infrange la monotonia. Ma ben presto i cerchi concentrici scompaiono, la superficie si ricompone e tutto torna come prima, tutto si annulla, tutto sfugge.
Ogni tumulto si dissolve, prima o poi. Ogni fremito, ogni gioia. Anche ogni sofferenza.
Acque limpide come specchi di fulgore opalescente dentro cui annegare e perdersi.
Scintille liquide di sogni che svettano e si confondono con le lacrime.
Cielo basso, dove le nuvole si inseguono e si speronano, come bambini in festa, come danzatrici ubriache.
Nembi gonfi e gravidi di pioggia e vento.
E poi campi di grano impressi con lacerante sofferenza su una tela bianca.
Pennelate rabbiose, spesse e cariche di grida silenziose.
Scontri e incontri di colori urlanti.
Corvi neri e torvi che divorano il cervello e ne fanno cibo per i vermi.
Spararsi al petto era l'unica disperata ancòra di salvezza.
Mai addentrarsi al di là del bene e del male. Mai superare il confine stabilito.
Il limite che separa la ragione dalla follia è labile come un filamento di saliva.
E per celia di ingrata e sarcastica sorte, il mondo prima disprezza e distrugge, e poi osanna e costruisce templi d'oro per le sue vittime sacrificali, quando ormai esse, seppellite in fondo alla terra, giacciono ignare della propria gloria immortale.
Ora sono tornata a cieli più alti, ma più foschi e plumbei. Il respiro non muta: è sempre asfittico.
Osservo, attonita, questo firmamento che pare lontano come un sogno inafferrabile.
I miei occhi, perle di lapislazzuli frastornate e questuanti, camminano rotolando verso il cielo. Ma mai lo raggiungono.
La mia distanza dalle stelle è incalcolabile. La rotta è inversa: porta in basso, pur guardando in alto. Errore di navigazione cosmico ed emozionale che non si riesce a emendare.
Di nuovo qui, in un "qui" che è spazio inesistente e indolente, estraneo al presente, che ondeggia tra rigurgiti di cordoni ombelicali sfilacciati che lo legano a un passato deforme, non più reale.
La mente crea qualsiasi cosa. Anche il proprio Averno, a regola d'arte. E l'arte non ha regole.
Di nuovo alle prese con gironi infernali cupi e mesti, dove tutto è uguale a tutto.
Il senso si smembra nell'indifferenziazione oscura di un'accidia furiosa e soverchiante senza nome e senza tempo.
Questi schizzi convulsi di inchiostro sono la mia unica salvezza.

"E il mio maestro mi insegnò come è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire"

F. Battiato, "Prospettiva Nievskij"

venerdì 8 agosto 2008

L'illusione dell'odio

L'odio è una violenta inversione di rotta, una distrazione disarticolata dell'amore, una virata improvvisa che ne ribalta il senso. E' uno strattone cieco e furibondo che ci scuote fin dalle viscere. E' una musica cacofonica, esule in terra straniera. E' un conato patetico dell'anima di risalire la china quando ormai il cielo si è tramutato in un penoso miraggio che odora di fiori plumbei. E' un ultimo dovizioso e caparbio tentativo di riconquistare ciò che è scivolato dentro gli specchi obliqui e deformi di un fiume insidioso e silenzioso. E' il tentativo strenuo di un guerriero impavido e riottoso di penetrare tra fortezze inoppugnabili.
Così si distrugge proprio ciò che si ama. Si sputano e si vomitano oceani di acrimonia e astioso veleno, per infangare e uccidere la bellezza. Perche' una bellezza perduta tra le ali del tempo e del vento è cosa troppo dolorosa, intollerabile e incomprensibile. Ma se essa invece viene adulterata e trasformata in bruttura, in infamia, in ignominioso oltraggio, in perla posticcia e spregevole, allora è più facile sopravvivere, e cervello e cuore, forse, non rischiano di finire in pasto a viscidi vermi striscianti. I sentieri dell'inganno, all'apparenza, sono meno sdrucciolevoli e irti di quelli della sofferenza.
Ma le lame che sfodera l'odio, in realtà, chi feriscono? Fendono le carni altrui, o le nostre?


"Il vino sa rivestire il più sordido tugurio
d'un lusso miracoloso
e innalza portici favolosi
nell'oro del suo rosso vapore
come un tramonto in un cielo annuvolato.
L'oppio ingrandisce le cose che già non hanno limite
allunga l'infinito
approfondisce il tempo, scava nella voluttà
e riempie l'anima al di là delle sue capacità
di neri e cupi piaceri.
Ma tutto ciò non vale il veleno che sgorga
dai tuoi occhi, dai tuoi occhi verdi,
laghi in cui la mia anima trema specchiandovisi rovesciata...
I miei sogni accorrono
a dissetarsi a quegli amari abissi.
Tutto questo non vale il terribile prodigio
della tua saliva che morde,
che la mia anima immerge nell'oblìo senza rimorsi
e sul carro della vertigine
la fa rotolare esausta alle sponde della morte!"


C. Baudelaire, "Il veleno", Les fleurs du mal

mercoledì 6 agosto 2008

Diapason

Se solo l'escursione temporale fosse semplice come addentrarsi tra i sentieri frondosi di un bosco, a quest'ora sarei ancora - o di nuovo - là, a indugiare lungo una "crueza de ma" dal sapore di sale e spezie, tra vicoli bui e obliqui, e risate impertinenti e fragorose, a guardare scorci di sorrisi, sguardi liquidi e limpidi come il mare, speranze avvinghiate all'anima con un nodo scorsoio inestricabile e possente.
Eppure i nodi spesso si sciolgono, il boma si spezza e la randa si aggroviglia tra le sferzate di libeccio e maestrale.
Le chiglie delle navi, si sa, a volte si incagliano su speroni rocciosi imprevisti che ne squarciano il ventre.
Se solo gli oggetti e i luoghi non parlassero da sè, plasmandosi lungo gli ammiccamenti di sensi antichi e ormai perduti, se la mente fosse cieca e incapace di creare e ricreare immagini, e le parole e i pensieri non fossero emblematica eco di armonie melliflue e contrappunti suadenti, allora sarebbe possibile reinventare altri mondi.
L'orchestra è immersa nel silenzio trepidante che precede il fragore, gli strumenti stanno già masticando l'incipit del preludio, quando uno stridore sordo si espande, una dissonanza fosca si sprigiona.
Ci vuole un diapason che ripristini una parvenza di un punto d'accordo da cui ripartire per placare questo caos magmatico e mastodontico.


"Insomma, quando ci si è svuotati, la vita torna a sorridere."

W. A. Mozart

Spleen

Attraverso questa tenda spessa di cotone grezzo osservo il monte da cui si guardano le stelle. Ipotesi di sogno e conquista ormai inutile. Non mi interessa più lo sfolgorante fragore del firmamento. L'ho visto esplodere e rigenerarsi dentro decine di deliri trasognanti impressi su tela. L'ho visto nascere milioni di volte da occhi smeraldini e inquieti, e dita impiastricciate e affusolate. L'ho amato e abitato. Dentro colori iridescenti avevo trovato una nicchia calda di beatitudine, un pertugio dove rifugiarmi nei momenti grigi e plumbei, dove annegare il dolore e celebrare la gioia. Ora la mia casa è un luogo angusto e capzioso, senza tempo e senza passioni. Ora sono tornata in basso, tra i comuni mortali, in quello spazio indolente e insidioso dove i giorni scandiscono non più la follia e la trepidazione, ma la noia e il dolore, dove la realtà è una gabbia che morde le carni e il cielo una macchia di inchiostro incerta e fortuita, un gioiello prezioso agghindato di lontananza e assenza.
Il tempo è un animale stanco dal passo lento, goffo e cadenzato.
Un orologio molle, che si scioglie come un gelato al sole, scandisce le ore. Tutte uguali, tutte ornate di vacuità e accidia.
Il senso delle cose è un'onda che fluttua lungo gli sguardi ingannevoli della memoria.
E sempre quell'inebriante profumo appiccicato alla mia pelle, che non se ne va. Gratto e martorio la carne con le unghie, come animale infoiato e impazzito, ma esso permane, è ormai penetrato nei pori e nello scheletro dell'anima e dei sensi, e lì è la sua dimora eterna.


"Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando l'intero giro dell'orizzonte, un giorno nero più triste della notte;

quando la terra è trasformata in umida prigione dove la Speranza, come un pipistrello, va sbattendo contro i muri la sua timida ala e picchiando la testa sui soffitti marci;

quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, imita le sbarre d'un grande carcere, e un popolo muto d'infami ragni tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli, improvvisamente delle campane sbattono con furia e lanciano verso il cielo un urlo orrendo, simili a spiriti vaganti e senza patria, che si mettono a gemere ostinatamente.

E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, sfilano lentamente nella mia anima; vinta, la Speranza piange; e l'atroce Angoscia, dispotica, pianta sul mio cranio chinato il suo nero vessillo."

C. Baudelaire, "Spleen", Les fleurs du mal

martedì 5 agosto 2008

La scia opaca del tempo

Il tempo cancella tutto, forse: flebile speranza di un'anima perduta tra le insenature di un tempo assente che si fa presente solo per marcare la sua tragica mancanza. Mi ci aggrappo a questa speranza, come un naufrago si aggrappa alla zattera sconquassata dalle tempeste.
Il tempo cancella tutto. Affievolisce ogni cosa. Ogni cosa avvizzisce, appassisce, sfuma, diviene eterica, si trasforma in non-essere, in immagine sbiadita che gli occhi della fantasia faticano a mettere a fuoco.
Anche gli odori, i gusti, le voci e i profumi si perdono e si dissolvono.
Così siamo soli, ancor più, stretti dalla morsa di un niente sempre più abissale, a inseguire sprazzi logori di felicità senza fine. Ci arrampichiamo come ramarri sulle pareti scivolose di un pozzo, per tentare di risalire verso la luce. Se ci lasciamo risucchiare dalla dolcezza del ricordo ricadiamo giù nel buio, inghiottiti dallla rabbia e dal dolore; se tentiamo di inerpicarci verso il bagliore, abbiam paura che la luce ci accechi. E se la luce fosse un'altra ennesima delusione? E se dietro i baluginii tremanti si celasse un'altra torva voragine di oscurità?
Il ricordo permette anche di vivere. Nel dolore e nel rimpianto, ma permette di vivere. Meglio un'esistenza che si nutra di assenze che la nostra follia trasforma in presenze, piuttosto che una sopravvvivenza che si cibi di nullità allineate una dopo l'altra, in fila, ineccepibili e splendenti come sprazzi di ossessionante e muto orrore.
E così rimaniamo lì, senza salire nè scendere, attaccati al freddo della pietra, senza guardare nè in basso nè in alto, sospesi a fili sdruciti di vane speranze e timide attese, intrappolati in un limbo impreciso e frastagliato dove rassegnazione e solitudine si intersecano: terribile prigione di ghiaccio e veleno.

"Col tempo, sai, col tempo tutto se ne va.
Non ricordi più il viso, non ricordi la voce.
Quando il cuore ormai tace, a che serve cercare
Ti lascio andare, forse meglio così.
Col tempo, sai, col tempo tutto se ne va.
L'altro che adoravi, che cercavi nel buio.
L'altro che indovinavi in un batter di ciglia.
E tra le frasi e le righe e il fondotinta
di promesse agghindate per uscire a ballare.
Col tempo, sai, tutto scompare.

Col tempo, sai, col tempo tutto se ne va.
Ogni cosa appassisce e mi scopro a frugare
in vetrine di morti quando il sabato sera la tenerezza rimane senza compagnia.

Col tempo, sai, col tempo tutto se ne va.
L'altro a cui tu credevi, anche un colpo di tosse.
L'altro che ricoprivi di gioielli e di vento,
per cui avresti impegnato anche l'anima al monte,
a cui ti trascinavi alla pari di un cane.
Col tempo, sai, tutto va bene.
Col tempo, sai, col tempo tutto se ne va.
Non ricordi più il fuoco, non ricordi le voci
della gente da poco e il loro sussurrare
"non ritardare, copriti, con il freddo che fa."

Col tempo, sai, col tempo tutto se ne va.
E ti senti il biancore di un cavallo sfiancato.
In un letto straniero ti senti gelato,
solitario, ma in fondo in pace col mondo.
E ti senti ingannato dagli anni perduti.
E allora tu, col tempo, sai...non ami più"

Leo Ferrè, "Col tempo"

giovedì 31 luglio 2008

Dissolvenza

Arriva un momento in cui la vita ci chiede il conto. Non si può più procrastinare. E tutto ciò che avevamo ignorato o lasciato sospeso viene rigurgitato dalle viscere della nostra anima con violenza e veemenza.
Non si può andare via senza aver guardato almeno una volta il sole nascere dal ventre del mare, senza essersi persi negli occhi di qualcuno, senza essersi innalzati in volo con i gabbiani, senza aver viaggiato tra le dolcezze di un sogno. Ma si può andare via sconfitti e sgomenti, con addosso solo l'odore dei ricordi e tra le mani macerie di speranze corrose dalla salsedine.
Ci si può consumare, giorno dopo giorno, lasciandosi stringere dal vuoto, lasciandosi lambire da un tempo inesistente e mendace. E si giunge, prima o poi, a un punto di non ritorno. Allora mente e corpo divengono ombre fievoli, e di noi rimane solo più un ologramma evanescente, uno sparuto e patetico scheletro che traballa a ogni passo. E mentre frammenti di cielo si schiantano a terra, ogni spazio intona un canto di lontananza e commiato.
La vita, a volte, passa e ripassa sugli stessi sentieri e si lacera lungo il filo tagliente delle stesse lame, come un abito liso che rimanga incagliato tra le spine. Tutti uguali i capolinea. Tutti uguali i fallimenti. A furia di affastellare un masso sull'altro le fondamenta della casa cedono e crollano.
Questa volta vado via davvero, questa volta, forse, non torno più. Forse non ci sono già più, forse sono già partita.
Vedo un urlo cieco che si contorce tra le spirali vermiglie di un sole insanguinato. Ora capisco, fino in fondo, che cosa voleva esprimere Edvard Munch.
Mi volto, come un Orfeo imprudente e impaziente, a guardare i passi che più non sento. Ed Euridice si dissolve. Avevi i passi lievi, troppo lievi per ammansire la mia infinita paura, ma abbastanza fragorosi e cadenzati per riempire di musica e bellezza la mia anima. Ti avevo quasi trascinato via, fuori dagli inferi, lontano da quel magma torbido. Maledetta e infame paura. Maledetto delirio di onnipotenza.
Ora seducenti e voluttuose baccanti divoreranno le mie carni. E sia.
Ho sfidato la sorte troppe volte. E' ora di pagare il fio per la mia tracotanza.
Si parte sempre da un luogo per arrivare a un altro luogo. Questo è un viaggio.
Qui si parte dal niente per arrivare al niente. Questa è la morte.
E sono così stremata che non ho neppure più paura.

"Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue."

E. Montale

mercoledì 30 luglio 2008

Perverse contaminazioni

Una foglia secca mi è balzata addosso, all'improvviso, sospinta da un vento sardonico e beffardo. Secca, come la lingua arsa dalla sete. Secca, come i sentimenti consumati dall'afa. Secca, come la mia pelle, la mia anima e i miei nervi dopo tutte queste innumerevoli e tumultuose tempeste. L'ho guardata, l'ho osservata, con ironia, disprezzo e sarcasmo. Possedeva un fascino strano e torbido: la seduzione irresistibile della decadenza. Era cosparsa di venature piccole e sottili, come ragnatela indipanabile e fitta di pensieri svuotati dall'attesa e soverchiati dal dolore.
Basta sfiorare appena una foglia secca e immediatamente essa si spezza, come sottile velo di pane azimo.
L'ho lanciata dall'auto in corsa, lungo la strada rigurgitante di squallide e opache normalità racchiuse dentro soffocanti scatolette di latta.
Via. E' scivolata via, come tutta la mia vita, in un lampo di cielo d'estate.
Buttare via. E' un ordine impellente e improrogabile che martella la mia mente, una priorità necessaria alla sopravvivenza. Gettare al vento sogni, speranze, illusioni, rabbia, delusioni, dolori, senza dimenticare neanche l'ombra di una timida stella.
Cancellare ogni dato immagazzinato in memoria. Reset. Bisogna riprogrammare tutto dopo l'avarìa disastrosa di questo delicato ingranaggio. Il danno è troppo esteso, ha inficiato ogni cosa.
Già: ogni cosa, non c'è nulla che riesca a eludere questa catastrofe.
Ogni luogo, ogni oggetto, ogni pensiero, ogni emozione, ogni sogno, ogni parola. Tutto è contaminato.
Non c'è modo di trasformare le associazioni e i nessi. E' un tripudio delirante di evocazioni incessanti. Bisognerebbe avere la forza e la capacità di modificare i significati senza intaccare i significanti: impresa titanica e utopica.
E, come in un infernale supplizio, ci si incaglia e ci si invischia in ciò che si tenta di distruggere. Quasi sempre l'epilogo inevitabile è l'autodistruzione. I pensieri di aggrovigliano e si attorcigliano attorno alle proprie ossessive e folli frenesie. Il cortocircuito è la logica conseguenza della propria perniciosa autoreferenzialità. Ogni cosa parte da lì, e lì vi fa ritorno, in modo subdolo e viscido, come un naufrago vomitato dal mare alla deriva di se stesso. Quando si cerca di bloccare il flusso dei ricordi è troppo tardi: la catena ci ha già completamente avviluppati.
E neppure il furore dell'ira può liberarci da questa tragica e meravigliosa tortura.
Perchè il veleno che sputiamo non fa che avvelenarci.

"Perchè morire e far morire è un'antica usanza che suole aver la gente"

G. Gaber, "Il dilemma"

martedì 29 luglio 2008

Illusioni di specchi

In questa sera d'estate mesta e struggente
musiche variopinte
si spargono intorno
come gocce di nettare inebriante

Un'immagine fugace e furtiva
si affaccia tra le impalcature pericolanti della memoria
Immagine rubata alla mia nostalgia scalpitante
ribelle alla mia volontà recalcitrante
Densa di profumi
e cosparsa di crepe sottili
come affresco masticato dagli occhi del tempo
eppure ammaliante e seducente
Terribile lama
che gioca con gli equilibrismi incauti di un desiderio soffocato e rinnegato

Questa sera tiepida
evoca altre sere bardate di irriverente follia
e ornate di colori e stupori

Brezza che accarezza i miei pensieri
come lo scirocco accarezza la schiuma scintillante delle onde
per infrangersi tra i dirupi scoscesi di uno sguardo luminoso e indecifrabile
enigma insoluto
su cui ancora la mente si arrovella

Era un tempo magnifico
munifico di sortilegi impudenti e imprudenti
gremito di risate e azzardi
dove la notte si confondeva con il giorno

Sotto le viscere della terra
in un antro buio e nascosto
tra odori penetranti di metallo e solventi
e rombi di motori incespicanti
si accendevano universi irreali e suadenti
si stagliavano figure ammiccanti
si affastellavano colori sfolgoranti
divampavano creazioni stupefacenti
esplodevano passioni scintillanti

Il mondo fuori
vecchio cimelio pigro e noioso
appariva a tratti
emergeva in noi distrattamente e noi
risalendo dal centro della terra
approdavamo talvolta
tra i suoi territori banali e consunti
con circospezione e diffidenza

Perle di ghiaccio che titillavano il palato
litri di caldo oro liquido
nero e pungente
che pizzicava la lingua
e poi di nuovo giù
tra gli abissi languidi di un tempo senza tempo
tra sogni temerari e interminabili sentieri di carne e voluttà

Eppure mai ho compreso la tua anima
e mai sono scesa abbastanza in fondo al tuo sguardo

Terribilmente facile farsi male:
basta commettere l'ingenuo e tragico errore
di guardare il proprio riflesso dentro gli occhi altrui
anziché, semplicemente
gli occhi altrui
nudi
senza empi e chimerici giochi di specchi

Un filo

E' tutta una questione di equilibri, prospettive e distanze.
Esiste un filo teso tra la terra e il cielo. Noi ci corriamo sopra, avanti e indietro, come intrepidi acrobati, quasi sempre senza rete. Cadere è un attimo. Ci vuole equilibrio, molto equilibrio. Tentenniamo, barcolliamo, beccheggiamo, incespichiamo.
Il segreto sta nel bilanciare il baricentro, nello spostare repentinamente il peso, nel tendere o contrarre i muscoli, nell'alternare sapientemente stasi e movimenti.
Il filo vibra, si può accorciare o allungare, farci avvicinare al cielo oppure alla terra. C'è chi passa l'intera vita immobile, accovacciato nel mezzo, a osservare gli altri camminare. C'è chi invece si sposta spasmodicamente e incessantemente, e oscilla come un pendolo irrequieto da un estremo all'altro.
Ci sono sguardi che hanno la capacità di seppellirci sotto coltri impenetrabili di silenzi, speranze e attese. Altri si scolpiscono tra le circonvoluzioni tortuose della nostra anima, si infilano tra le sue recondite insenature come gechi nei buchi dei muri a secco, e lì vi rimangono per sempre, a guardarci da un'altra dimensione, da un altro tempo.
Esistono mani che ci stringono brutalmente, ci trattengono in basso, ci schiacciano sottoterra, ci succhiano il sangue. Ma esistono anche mani che invece ci sfiorano piano, con prudenza, parsimonia e pazienza, che tessono negli anni - e a volte in un solo attimo - intese, complicità ed empatie, e il cui contatto emana e irradia calore, bellezza e dolcezza. Tra queste mani ci possiamo assopire senza timore di essere depredati e ingannati. Esse ci contengono e ci proteggono, e attendono che le nostre ali siano abbastanza robuste per tentare il volo.
Talvolta ci vuole una vita intera per decidersi di arrischiarsi a librarsi in volo.
Altre volte ci ostiniamo stoltamente e incautamente ad azzardare un battito d'ali, circuiti da bagliori illusori e fittizzi, fuorviati dalla nostra vanagloriosa superbia e dalla nostra tracotante leggerezza, e dopo qualche concitato dimenìo capitoliamo rovinosamente tra le fauci del vuoto.
Eppure il senso di tutto questo baldanzoso e scabroso funambolismo, alla fine, non è altro che arrivare in cima al filo, per giungere a ghermire il cielo e confonderci in esso. Come gabbiani ci tuffiamo nel mare e poi ci inabissiamo tra i baluginii avvolgenti e incandescenti del sole. Sperando sempre che le nostre ali non siano di cera come quelle di Icaro.

"Era mio quel corpo umano
che a fatica mi seguiva
che chiedeva di andare piano
ma la mente lo tirava.
Ed il corpo che mi sembrava così pesante
come faticava, trascinato da un elastico.

Dio, che senso di paura
vedere il filo teso
già vicino alla rottura
non tiene più l'elastico, non tiene più l'elastico...
Di colpo, fuori e dentro
lo schianto.

Un bambino s'è spezzato
non spingete, mi fate male
non posso uscire, c'è troppo buio
voi, voi mi schiacciate contro il muro.
Lui camminava senza filo
ho paura di morire
aveva visto un sole nero.
Non mi possono toccare
io sono dentro a una bottiglia
son chiuso dentro e non voglio uscire
c'è troppo spazio tra me e me."

G. Gaber, "L'elastico"

lunedì 28 luglio 2008

Inganno di estasi e carne

Che cos'è questa sublime estasi che si raggiunge solo in due?
Era inganno. Lo è anche adesso. Lo sarà sempre.
Uno scherno crudele di un dio beffardo, il quale ci rammenta che la completezza è una condizione assopita e ancestrale a cui perennemente aneliamo, ma che abbiamo il privilegio di poter sfiorare solo raramente, quando ci illudiamo di fonderci con un'altra persona. E allora per un breve momento possiamo varcare la soglia della nostra disperata e insanabile solitudine, per immergerci nella perfezione pura, per annegare in una dimensione olistica, meravigliosa e scintillante cosparsa di interezza e beatitudine. Le carni danzano forsennatamente e si intrecciano in amplessi infiniti dove non esiste tempo, nè spazio, nè distorsioni e paure.
Ma poi l'incanto si spezza, il sortilegio si dissolve.
E ci troviamo dinnanzi a un essere diverso, altro da noi, che solo per un fugace attimo abbiamo potuto lambire, penetrare e accarezzare intimamente.
Siamo scesi tra gli abissi dove ribolle la vita, e abbiamo toccato la radice primordiale e segreta della nostra e dell'altrui anima.
Ma poi?
Poi c'è solo il gusto del fiele, il dolore della separazione, incontrovertibile e scellerata condanna.
Terribile tortura, simile a quella dello sciagurato Tantalo: viviamo inebriati dal profumo dell'abbondanza, del piacere e della perfezione, ma appena allunghiamo una mano per carpire tutto questo, ogni cosa svanisce, come sogni che si dissolvano tra gli sbadigli dell'alba. E un macigno incombe minaccioso su di noi.
Inutile ogni misero tentativo di possedere e stringere ciò che per natura è sdrucciolevole e fuggevole.
Quel teatro grottesco e assurdo dove si consuma ciò che noi chiamiamo amore, altro non è che una ridicola e patetica farsa fatta di illusioni, promesse mancate, labili coincidenze, desideri irrealizzabili, fughe, inseguimenti, rancori, inganni, meschinità, fraintendimenti, speranze, sofferenze.
Ma tutto questo imponente e mastodontico trambusto, questi tumultuosi e contraddittori vortici di emozioni e azioni, portano sempre e solo ad un unico tragico epilogo: la vita a due è un'illusione impossibile. Esistono solo dolorose e laceranti collisioni tra un essere e un altro; esiste solo questa disperata, incessante e vana ricerca di un'interlocuzione simbiotica, per tentare di emendare la propria enorme imperfezione e riempire il proprio vuoto ontologico.
Ma - apoteosi della beffa - ciò che ne sortisce è, tutt'al più, lo scontro di due solitudini.

"Amore è un demone possente che sta tra i mortali e gli immortali"

Platone, "Convito"

Bagagli per l'inferno

Come le foglie d'autunnno vengono mosse e agitate a caso dal vento di tramontana, così io cammino: a caso, claudicante e traballante, lungo spirali sconclusionate e farneticanti, senza neppure più guardare l'orizzonte e il cielo, spinta da un vento torvo e gelido. Non vado da nessuna parte; cammino, appunto. Non vivo, sopravvivo.
Tento qualche goffa distrazione. Si apre così un meraviglioso universo di doviziosi orpelli superflui e inutili, di occupazioni irrilevanti e insensate. E mi ci butto con dedizione e caparbietà.
Guai a lasciare buchi e pertugi: vi si potrebbe insinuare, strisciante e suadente, il vuoto, nefasto preambolo dell'accidia, del dolore e della noia.
Posizionare un oggetto insulso in un modo piuttosto che in un altro diviene una nobile e fondamentale azione.
Tento di costruire un ordine esteriore, un controllo disperato e compulsivo sulle piccole cose. Perchè, chissà, esse potrebbero essere il prologo di quelle più grandi.
E' come quando si parte per un lungo viaggio e si tenta di riempire ogni minuscolo spazio della valigia, affastellando i vestiti uno sull'altro e comprimendoli azzardatamente. L'importante è non lasciare anfratti vuoti. L'importante è riempire, oltre la reale e ragionevole capacità di capienza.
Ma in questo caso la meta del viaggio è incerta e sconosciuta, e per ora c'è solo posto in prima classe sul treno diretto all'inferno.

"Mi sono spiato illudermi e fallire
abortire i figli come i sogni

Mi sono guardato piangere in uno specchio di neve
mi sono visto che ridevo
mi sono visto di spalle che partivo

Ti saluto dai paesi di domani
che sono visioni di anime contadine
in volo per il mondo

Mille anni al mondo mille ancora
che bell'inganno sei anima mia
e che grande questo tempo
che solitudine
che bella compagnia"

F. De Andrè, "Anime Salve"

Amnesia

I giochi insidiosi e ingannevoli della memoria sono come sabbie mobili: più ci si addentra in essi e ci si dimena, più essi ci risucchiano. Ci accarezzano gli occhi e la mente con dolcezze illusorie, con canti di sirene, e poi ci invischiano e ci tolgono l'aria, come pesci nella rete.
Il ricordo è una fata morgana diafana, tremante e millantatrice che ci appare durante le febbri sconsiderate e languide dei nostri imprudenti desideri. Splendido supplizio.
Bisognerebbe imparare a vivere senza ricordare. Tutto ogni volta daccapo.
La nostra mente dovrebbe essere programmata per andare solo avanti, a braccetto con la linea temporale della "realtà" immanente, senza potersi inventare un'altra dimensione spazio-temporale parallela attraverso cui balzare capricciosamente come un funambolo impazzito, viaggiando a ritroso, preconizzando e sognando.
Al posto di questa mente stolta e improvvida, basterebbe possedere un meccanismo preciso, asettico, puntuale, efficiente e pragmatico che ostracizzi fantasie, emozioni, umori, speranze e inutili universi onirici e ipotetici.
Una splendida e inanimata macchina. Semplice. Non serve altro. Tutto il resto è illusione; tutto il resto è preludio di sofferenza, causa di dolore.
L'essere umano è un guerriero folle e suicida che scende in battaglia indossando come unica armatura la sola pelle nuda.

"Bisogna avere ancora del caos dentro di sè per partorire una stella danzante."

F. Nietzsche, "Così parlò Zarathustra"

domenica 27 luglio 2008

Sull'orlo di un precipizio

Mi trovo davanti a un abisso ripido e scosceso. Lo guardo, lo scruto, con timore e attrazione. Esiste sempre una maledetta calamita che mi trascina giù, tra le viscere di ogni dirupo.
Si sa: la vertigine non è altro che sublime e incontrollabile desiderio di essere risucchiati dal vuoto.
Corro veloce lungo una strada di cemento liquido verso qualcosa che non arriverà mai, che non arriverà più, perchè ciò che si congeda scolpisce per sempre il suo commiato tra le pieghe oblique del tempo. E niente ritorna uguale. Niente ritorna.
Sono in fuga da un mondo in frantumi, la cui dolcezza è insopportabile e insolente, una magnifica tortura lenta e inesorabile che accarezza le palpebre chiuse e infilza con aghi acuminati le palpebre aperte, che violenta l'anima e brama la carne.
Fuggo e sfuggo, sulle ali appiccicose della canicola, verso boschi fitti, tra rovi avvolgenti, dove nessuno mi può trovare. Mi nascondo come lupa ferita, braccata dall'arguzia scaltra del dolore, e mi illudo di riuscire a reinventarmi un sogno dentro sogni altrui. Rivedo facce, volti, sguardi che mi scaraventano indietro nel tempo, alla ricerca di un senso che non c'è. E' terribile vedere i sogni altrui realizzarsi proprio quando i propri si sono sciolti al sole come incauti fiocchi di neve. Mi assale un misto di invidia, gioia e rabbia.
Forse la salvezza è nel mio antico mare, che mi culla e mi abbraccia da sempre, che era lì ad aspettarmi ancor prima che nascessi. Ma la battigia è ricolma di schiamazzi inutili e volgari. Meglio l'inverno, con la sua languida e meravigliosa discrezione. Perchè quel mare è solo mio. Via i profani, via i millantatori!
Come ogni amante che si rispetti, rivendico l'esclusiva sull'amato.
Faccio ritorno, accompagnata da un tramonto mesto e rovente, alla mia incolmabile solitudine.
Che ci faccio qui? Dove sono? Oggetti sparsi che parlano di me, di ciò che sono, di ciò che ero; forse, di ciò che sarò. Una voluttuosa e discinta figura rossa si staglia sulla parete: unico misero frammento di un sogno che sapeva di estasi, e ora ha il gusto amaro del fiele. Intorno a me un tripudio di timidi e inutili tentativi di reinventarsi qualcosa, a dispetto di tutto e tutti. Più per sfida e orgoglio che per autentico desiderio. Per quanto fervida e ardita possa essere la fantasia, bisogna sempre partire da qualcosa per ricostruire. Il vuoto genera solo vuoto.
Ma prima che il dolore si trasformi in un seme fecondo e non rimanga un emblema di morte e sconfitta, bisogna innaffiarlo ripetutamente per giorni e giorni, con pazienza infinita e inflessibile caparbietà. Mai stata paziente.
Che faccio? Scendo nell'Ade, tra labirinti senza forma, sguazzando nella compiacenza melodrammatica del mio squisito masochismo, o rimango nel mondo dei vivi?
Dietro le quinte, appese a un muro, una sequela interminabile di maschere di ogni foggia.
E' facile: basta sceglierne una e il gioco è fatto.
E si alza il sipario.


“Perchè trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi. La logica, la logica di tutte le vostre costruzioni. Eh, che volete, costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma. Volubili, volubili! Oggi così e domani chissà come come. Voi vi tenete forte ed essi non si tengono più. Volubili, volubili! Voi dite: “questo non può essere”, e per loro può essere tutto.”

L. Pirandello, “Enrico IV”