martedì 29 luglio 2008

Un filo

E' tutta una questione di equilibri, prospettive e distanze.
Esiste un filo teso tra la terra e il cielo. Noi ci corriamo sopra, avanti e indietro, come intrepidi acrobati, quasi sempre senza rete. Cadere è un attimo. Ci vuole equilibrio, molto equilibrio. Tentenniamo, barcolliamo, beccheggiamo, incespichiamo.
Il segreto sta nel bilanciare il baricentro, nello spostare repentinamente il peso, nel tendere o contrarre i muscoli, nell'alternare sapientemente stasi e movimenti.
Il filo vibra, si può accorciare o allungare, farci avvicinare al cielo oppure alla terra. C'è chi passa l'intera vita immobile, accovacciato nel mezzo, a osservare gli altri camminare. C'è chi invece si sposta spasmodicamente e incessantemente, e oscilla come un pendolo irrequieto da un estremo all'altro.
Ci sono sguardi che hanno la capacità di seppellirci sotto coltri impenetrabili di silenzi, speranze e attese. Altri si scolpiscono tra le circonvoluzioni tortuose della nostra anima, si infilano tra le sue recondite insenature come gechi nei buchi dei muri a secco, e lì vi rimangono per sempre, a guardarci da un'altra dimensione, da un altro tempo.
Esistono mani che ci stringono brutalmente, ci trattengono in basso, ci schiacciano sottoterra, ci succhiano il sangue. Ma esistono anche mani che invece ci sfiorano piano, con prudenza, parsimonia e pazienza, che tessono negli anni - e a volte in un solo attimo - intese, complicità ed empatie, e il cui contatto emana e irradia calore, bellezza e dolcezza. Tra queste mani ci possiamo assopire senza timore di essere depredati e ingannati. Esse ci contengono e ci proteggono, e attendono che le nostre ali siano abbastanza robuste per tentare il volo.
Talvolta ci vuole una vita intera per decidersi di arrischiarsi a librarsi in volo.
Altre volte ci ostiniamo stoltamente e incautamente ad azzardare un battito d'ali, circuiti da bagliori illusori e fittizzi, fuorviati dalla nostra vanagloriosa superbia e dalla nostra tracotante leggerezza, e dopo qualche concitato dimenìo capitoliamo rovinosamente tra le fauci del vuoto.
Eppure il senso di tutto questo baldanzoso e scabroso funambolismo, alla fine, non è altro che arrivare in cima al filo, per giungere a ghermire il cielo e confonderci in esso. Come gabbiani ci tuffiamo nel mare e poi ci inabissiamo tra i baluginii avvolgenti e incandescenti del sole. Sperando sempre che le nostre ali non siano di cera come quelle di Icaro.

"Era mio quel corpo umano
che a fatica mi seguiva
che chiedeva di andare piano
ma la mente lo tirava.
Ed il corpo che mi sembrava così pesante
come faticava, trascinato da un elastico.

Dio, che senso di paura
vedere il filo teso
già vicino alla rottura
non tiene più l'elastico, non tiene più l'elastico...
Di colpo, fuori e dentro
lo schianto.

Un bambino s'è spezzato
non spingete, mi fate male
non posso uscire, c'è troppo buio
voi, voi mi schiacciate contro il muro.
Lui camminava senza filo
ho paura di morire
aveva visto un sole nero.
Non mi possono toccare
io sono dentro a una bottiglia
son chiuso dentro e non voglio uscire
c'è troppo spazio tra me e me."

G. Gaber, "L'elastico"

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