domenica 27 luglio 2008

Sull'orlo di un precipizio

Mi trovo davanti a un abisso ripido e scosceso. Lo guardo, lo scruto, con timore e attrazione. Esiste sempre una maledetta calamita che mi trascina giù, tra le viscere di ogni dirupo.
Si sa: la vertigine non è altro che sublime e incontrollabile desiderio di essere risucchiati dal vuoto.
Corro veloce lungo una strada di cemento liquido verso qualcosa che non arriverà mai, che non arriverà più, perchè ciò che si congeda scolpisce per sempre il suo commiato tra le pieghe oblique del tempo. E niente ritorna uguale. Niente ritorna.
Sono in fuga da un mondo in frantumi, la cui dolcezza è insopportabile e insolente, una magnifica tortura lenta e inesorabile che accarezza le palpebre chiuse e infilza con aghi acuminati le palpebre aperte, che violenta l'anima e brama la carne.
Fuggo e sfuggo, sulle ali appiccicose della canicola, verso boschi fitti, tra rovi avvolgenti, dove nessuno mi può trovare. Mi nascondo come lupa ferita, braccata dall'arguzia scaltra del dolore, e mi illudo di riuscire a reinventarmi un sogno dentro sogni altrui. Rivedo facce, volti, sguardi che mi scaraventano indietro nel tempo, alla ricerca di un senso che non c'è. E' terribile vedere i sogni altrui realizzarsi proprio quando i propri si sono sciolti al sole come incauti fiocchi di neve. Mi assale un misto di invidia, gioia e rabbia.
Forse la salvezza è nel mio antico mare, che mi culla e mi abbraccia da sempre, che era lì ad aspettarmi ancor prima che nascessi. Ma la battigia è ricolma di schiamazzi inutili e volgari. Meglio l'inverno, con la sua languida e meravigliosa discrezione. Perchè quel mare è solo mio. Via i profani, via i millantatori!
Come ogni amante che si rispetti, rivendico l'esclusiva sull'amato.
Faccio ritorno, accompagnata da un tramonto mesto e rovente, alla mia incolmabile solitudine.
Che ci faccio qui? Dove sono? Oggetti sparsi che parlano di me, di ciò che sono, di ciò che ero; forse, di ciò che sarò. Una voluttuosa e discinta figura rossa si staglia sulla parete: unico misero frammento di un sogno che sapeva di estasi, e ora ha il gusto amaro del fiele. Intorno a me un tripudio di timidi e inutili tentativi di reinventarsi qualcosa, a dispetto di tutto e tutti. Più per sfida e orgoglio che per autentico desiderio. Per quanto fervida e ardita possa essere la fantasia, bisogna sempre partire da qualcosa per ricostruire. Il vuoto genera solo vuoto.
Ma prima che il dolore si trasformi in un seme fecondo e non rimanga un emblema di morte e sconfitta, bisogna innaffiarlo ripetutamente per giorni e giorni, con pazienza infinita e inflessibile caparbietà. Mai stata paziente.
Che faccio? Scendo nell'Ade, tra labirinti senza forma, sguazzando nella compiacenza melodrammatica del mio squisito masochismo, o rimango nel mondo dei vivi?
Dietro le quinte, appese a un muro, una sequela interminabile di maschere di ogni foggia.
E' facile: basta sceglierne una e il gioco è fatto.
E si alza il sipario.


“Perchè trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi. La logica, la logica di tutte le vostre costruzioni. Eh, che volete, costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma. Volubili, volubili! Oggi così e domani chissà come come. Voi vi tenete forte ed essi non si tengono più. Volubili, volubili! Voi dite: “questo non può essere”, e per loro può essere tutto.”

L. Pirandello, “Enrico IV”

Nessun commento: