giovedì 21 agosto 2008

Agli dei ulteriori, distratti manipolatori di eresie

Un incrocio di dita e setole, per far risaltare il colore, per crearlo e accarezzarlo, senza storpiature. Così si profana e si svergina un manto di candido cotone. Così mi hanno insegnato.
Ma hanno dimenticato di insegnarmi ad ammazzare i sogni senza farli agonizzare.
Barlumi di pensieri sconnessi e scoscesi rotolano a valle dalla cima del monte. Precipitano giù, sempre più giù, fino a essere ingurgitati dagli Inferi.
Rumori di parole sospesi nel tempo e nella memoria.
Ho imparato a tingere di arcobaleno le stanze della noia e della rabbia.
Ho imparato a ridere fino a increspare le viscere.
Ho imparato a gustare la mia perversione senza limiti.
Ho imparato a sognare.
Ora ho dimenticato tutto.
Ho coltivato la follia, come superbo e selvatico fiore, l'ho impastata con il buio ruggente di notti inebrianti.
Mi guardavo in uno specchio di sensualità e languore, e mi trovavo bella. Ero uno sfrontato e insolente Narciso.
Due sguardi, una sola anima.
Un cerchio è perfetto perchè non ha inizio nè fine, è un estasiante palindromo.
Aderire al sogno, esserci dentro: sortilegio sconosciuto prima d'allora.
Indossavo la stupefacente nudità di una seconda pelle. Così io ero due. E due diventavano uno. Non c'era più distinzione.
Questa è la perfezione: come il cerchio, io non iniziavo e non finivo. Io ERO, non avevo limiti.
Nel mistero imperscrutabile dell'ontologia umana esistono la bellezza della fusione e la magia della duplicazione senza separazione, e si generano i paradossali ossimori della dualità nell'unità e dell'unità nella dualità.
Meraviglia che può divenire incubo.
Un Orfeo cromatico mi ha depredato, mi ha deturpato lo sguardo, mi ha rubato la vita. Vago a tentoni nell'oscurità, la cerco, ma non la trovo: mi è scivolata via dai buchi dell'anima.
La mia anima ora è un muro bosniaco trivellato di pallottole di kalashnikov. Vi ci danzano orde di vermi tumefatti.
Nel buio c'è solo il buio, spesso sipario adornato di nulla. I miei occhi sono spalancati ma è come fossero chiusi sul silenzio.
Caronte ha sogghignato, ha guardato dentro questi occhi storpi e stolti e me li ha trafitti con dardi infuocati. O forse erano già ciechi, da sempre. Vedere senza guardare è la peggior nemesi che esista. Sono inciampata tra le braccia di Morfeo, il dio del sonno.
Ottundimento dei sensi: Venere è una serpe strisciante e voluttuosa che seduce e inganna. E dopo baccanali sfrenati e munificenze di ogni sorta ci sospinge in un torvo e greve esilio.
Dall'altare del tempio sacro a Minerva sgorga un sangue nero. Il mio. Sangue a fiotti: rutilante e ruvido mare che innaffia la gola arida e avida, come un vino che stilli scintille di sciagure inenarrabili.
Dov'e' il bandolo? Arianna porge il filo a un fantasma, non a un eroe.
Ognuno ha il suo minotauro.
Ma io non sono Teseo.
E' il mostro che mi divora o sono io che mi flagello lungo schegge stridenti di allucinazioni deliranti?
Ridere. Ridere conduce a ridere, di sè e degli altri, del tripudio osceno di miserie e mistificazioni. Unica salvezza.
Non c'era niente là dentro, eppure c'era tutto.
Il labirinto sono io. Il mostro sono io.
Non bisognerebbe mai sopravvvivere a certe cose.
Certe cose ci dovrebbero uccidere, non lasciarci in vita come naufraghi disperati e dispersi, come ombre che brancolano alla rinfusa, dilaniate dalla follia e dal dolore.

"Tutti morimmo a stento
ingoiando l'ultima voce
tirando calci al vento
vedemmo sfumare la luce"

F. De Andrè, "Tutti morimmo a stento"

martedì 19 agosto 2008

Diario di viaggio

Viaggio. Tentativo di risalire dal gorgo buio della "saudade".
Sangue dentro le vene che anzichè raggrumarsi in secchi e opachi ristagni immobili, si scioglie come le nevi al primo timido sole di marzo.
Piccole variazioni.
Vaghi sussulti dinnanzi a mondi ignoti che ci catturano e ci incantano.
Riuscire, di nuovo, per brevi attimi, a sentire la Bellezza che scorre tra le viscere compresse e schiacciate dal clamore costante e scrosciante del dolore.
Ma sono fugaci gli sprazzi di vita, perchè la memoria è un fardello che ci insegue ovunque. E ci stana sempre. Anche se ci nascondiamo dentro bunker ermetici, lei ci trova, annusa, come animale selvatico, il nostro rancido odore di anime marce, corrose dalle ossessioni, e ci stritola tra i suoi tentacoli mefitici.
Usa ogni pretesto, ogni inganno, l'infame furia furente, per insinuarsi come serpe velenosa nelle intercapedini dei pensieri.
Ogni luogo è colmo di ami ricurvi a cui rimangono incagliati frammenti di passato e strascichi di struggente dolcezza. Persino laggiù, persino a chilometri di distanza.
Mi sono immersa dentro cieli lontani, sconosciuti e volubili, illudendomi che essi fossero intonsi, sgombri da ingombri e logori squarci di opprimenti ricordi.
Ombre lunghe, triste companatico della sera, da tagliare con coltelli affilati per ingoiarne le carni.
Alter ego impavido, appiccicato alla mia pelle. Gemello omozigote sempre con me, fedele compagno di incubi. Chi è? Sono io? Quante sono le identità possibili?
Una, nessuna e centomila... E si consuma il teatro della vita.
Gioco pericolante e pericoloso.
I sassi che si lanciano nel mare lo scuotono, ne corrugano la superficie, creano un brivido di rottura che infrange la monotonia. Ma ben presto i cerchi concentrici scompaiono, la superficie si ricompone e tutto torna come prima, tutto si annulla, tutto sfugge.
Ogni tumulto si dissolve, prima o poi. Ogni fremito, ogni gioia. Anche ogni sofferenza.
Acque limpide come specchi di fulgore opalescente dentro cui annegare e perdersi.
Scintille liquide di sogni che svettano e si confondono con le lacrime.
Cielo basso, dove le nuvole si inseguono e si speronano, come bambini in festa, come danzatrici ubriache.
Nembi gonfi e gravidi di pioggia e vento.
E poi campi di grano impressi con lacerante sofferenza su una tela bianca.
Pennelate rabbiose, spesse e cariche di grida silenziose.
Scontri e incontri di colori urlanti.
Corvi neri e torvi che divorano il cervello e ne fanno cibo per i vermi.
Spararsi al petto era l'unica disperata ancòra di salvezza.
Mai addentrarsi al di là del bene e del male. Mai superare il confine stabilito.
Il limite che separa la ragione dalla follia è labile come un filamento di saliva.
E per celia di ingrata e sarcastica sorte, il mondo prima disprezza e distrugge, e poi osanna e costruisce templi d'oro per le sue vittime sacrificali, quando ormai esse, seppellite in fondo alla terra, giacciono ignare della propria gloria immortale.
Ora sono tornata a cieli più alti, ma più foschi e plumbei. Il respiro non muta: è sempre asfittico.
Osservo, attonita, questo firmamento che pare lontano come un sogno inafferrabile.
I miei occhi, perle di lapislazzuli frastornate e questuanti, camminano rotolando verso il cielo. Ma mai lo raggiungono.
La mia distanza dalle stelle è incalcolabile. La rotta è inversa: porta in basso, pur guardando in alto. Errore di navigazione cosmico ed emozionale che non si riesce a emendare.
Di nuovo qui, in un "qui" che è spazio inesistente e indolente, estraneo al presente, che ondeggia tra rigurgiti di cordoni ombelicali sfilacciati che lo legano a un passato deforme, non più reale.
La mente crea qualsiasi cosa. Anche il proprio Averno, a regola d'arte. E l'arte non ha regole.
Di nuovo alle prese con gironi infernali cupi e mesti, dove tutto è uguale a tutto.
Il senso si smembra nell'indifferenziazione oscura di un'accidia furiosa e soverchiante senza nome e senza tempo.
Questi schizzi convulsi di inchiostro sono la mia unica salvezza.

"E il mio maestro mi insegnò come è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire"

F. Battiato, "Prospettiva Nievskij"

venerdì 8 agosto 2008

L'illusione dell'odio

L'odio è una violenta inversione di rotta, una distrazione disarticolata dell'amore, una virata improvvisa che ne ribalta il senso. E' uno strattone cieco e furibondo che ci scuote fin dalle viscere. E' una musica cacofonica, esule in terra straniera. E' un conato patetico dell'anima di risalire la china quando ormai il cielo si è tramutato in un penoso miraggio che odora di fiori plumbei. E' un ultimo dovizioso e caparbio tentativo di riconquistare ciò che è scivolato dentro gli specchi obliqui e deformi di un fiume insidioso e silenzioso. E' il tentativo strenuo di un guerriero impavido e riottoso di penetrare tra fortezze inoppugnabili.
Così si distrugge proprio ciò che si ama. Si sputano e si vomitano oceani di acrimonia e astioso veleno, per infangare e uccidere la bellezza. Perche' una bellezza perduta tra le ali del tempo e del vento è cosa troppo dolorosa, intollerabile e incomprensibile. Ma se essa invece viene adulterata e trasformata in bruttura, in infamia, in ignominioso oltraggio, in perla posticcia e spregevole, allora è più facile sopravvivere, e cervello e cuore, forse, non rischiano di finire in pasto a viscidi vermi striscianti. I sentieri dell'inganno, all'apparenza, sono meno sdrucciolevoli e irti di quelli della sofferenza.
Ma le lame che sfodera l'odio, in realtà, chi feriscono? Fendono le carni altrui, o le nostre?


"Il vino sa rivestire il più sordido tugurio
d'un lusso miracoloso
e innalza portici favolosi
nell'oro del suo rosso vapore
come un tramonto in un cielo annuvolato.
L'oppio ingrandisce le cose che già non hanno limite
allunga l'infinito
approfondisce il tempo, scava nella voluttà
e riempie l'anima al di là delle sue capacità
di neri e cupi piaceri.
Ma tutto ciò non vale il veleno che sgorga
dai tuoi occhi, dai tuoi occhi verdi,
laghi in cui la mia anima trema specchiandovisi rovesciata...
I miei sogni accorrono
a dissetarsi a quegli amari abissi.
Tutto questo non vale il terribile prodigio
della tua saliva che morde,
che la mia anima immerge nell'oblìo senza rimorsi
e sul carro della vertigine
la fa rotolare esausta alle sponde della morte!"


C. Baudelaire, "Il veleno", Les fleurs du mal

mercoledì 6 agosto 2008

Diapason

Se solo l'escursione temporale fosse semplice come addentrarsi tra i sentieri frondosi di un bosco, a quest'ora sarei ancora - o di nuovo - là, a indugiare lungo una "crueza de ma" dal sapore di sale e spezie, tra vicoli bui e obliqui, e risate impertinenti e fragorose, a guardare scorci di sorrisi, sguardi liquidi e limpidi come il mare, speranze avvinghiate all'anima con un nodo scorsoio inestricabile e possente.
Eppure i nodi spesso si sciolgono, il boma si spezza e la randa si aggroviglia tra le sferzate di libeccio e maestrale.
Le chiglie delle navi, si sa, a volte si incagliano su speroni rocciosi imprevisti che ne squarciano il ventre.
Se solo gli oggetti e i luoghi non parlassero da sè, plasmandosi lungo gli ammiccamenti di sensi antichi e ormai perduti, se la mente fosse cieca e incapace di creare e ricreare immagini, e le parole e i pensieri non fossero emblematica eco di armonie melliflue e contrappunti suadenti, allora sarebbe possibile reinventare altri mondi.
L'orchestra è immersa nel silenzio trepidante che precede il fragore, gli strumenti stanno già masticando l'incipit del preludio, quando uno stridore sordo si espande, una dissonanza fosca si sprigiona.
Ci vuole un diapason che ripristini una parvenza di un punto d'accordo da cui ripartire per placare questo caos magmatico e mastodontico.


"Insomma, quando ci si è svuotati, la vita torna a sorridere."

W. A. Mozart

Spleen

Attraverso questa tenda spessa di cotone grezzo osservo il monte da cui si guardano le stelle. Ipotesi di sogno e conquista ormai inutile. Non mi interessa più lo sfolgorante fragore del firmamento. L'ho visto esplodere e rigenerarsi dentro decine di deliri trasognanti impressi su tela. L'ho visto nascere milioni di volte da occhi smeraldini e inquieti, e dita impiastricciate e affusolate. L'ho amato e abitato. Dentro colori iridescenti avevo trovato una nicchia calda di beatitudine, un pertugio dove rifugiarmi nei momenti grigi e plumbei, dove annegare il dolore e celebrare la gioia. Ora la mia casa è un luogo angusto e capzioso, senza tempo e senza passioni. Ora sono tornata in basso, tra i comuni mortali, in quello spazio indolente e insidioso dove i giorni scandiscono non più la follia e la trepidazione, ma la noia e il dolore, dove la realtà è una gabbia che morde le carni e il cielo una macchia di inchiostro incerta e fortuita, un gioiello prezioso agghindato di lontananza e assenza.
Il tempo è un animale stanco dal passo lento, goffo e cadenzato.
Un orologio molle, che si scioglie come un gelato al sole, scandisce le ore. Tutte uguali, tutte ornate di vacuità e accidia.
Il senso delle cose è un'onda che fluttua lungo gli sguardi ingannevoli della memoria.
E sempre quell'inebriante profumo appiccicato alla mia pelle, che non se ne va. Gratto e martorio la carne con le unghie, come animale infoiato e impazzito, ma esso permane, è ormai penetrato nei pori e nello scheletro dell'anima e dei sensi, e lì è la sua dimora eterna.


"Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando l'intero giro dell'orizzonte, un giorno nero più triste della notte;

quando la terra è trasformata in umida prigione dove la Speranza, come un pipistrello, va sbattendo contro i muri la sua timida ala e picchiando la testa sui soffitti marci;

quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, imita le sbarre d'un grande carcere, e un popolo muto d'infami ragni tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli, improvvisamente delle campane sbattono con furia e lanciano verso il cielo un urlo orrendo, simili a spiriti vaganti e senza patria, che si mettono a gemere ostinatamente.

E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, sfilano lentamente nella mia anima; vinta, la Speranza piange; e l'atroce Angoscia, dispotica, pianta sul mio cranio chinato il suo nero vessillo."

C. Baudelaire, "Spleen", Les fleurs du mal

martedì 5 agosto 2008

La scia opaca del tempo

Il tempo cancella tutto, forse: flebile speranza di un'anima perduta tra le insenature di un tempo assente che si fa presente solo per marcare la sua tragica mancanza. Mi ci aggrappo a questa speranza, come un naufrago si aggrappa alla zattera sconquassata dalle tempeste.
Il tempo cancella tutto. Affievolisce ogni cosa. Ogni cosa avvizzisce, appassisce, sfuma, diviene eterica, si trasforma in non-essere, in immagine sbiadita che gli occhi della fantasia faticano a mettere a fuoco.
Anche gli odori, i gusti, le voci e i profumi si perdono e si dissolvono.
Così siamo soli, ancor più, stretti dalla morsa di un niente sempre più abissale, a inseguire sprazzi logori di felicità senza fine. Ci arrampichiamo come ramarri sulle pareti scivolose di un pozzo, per tentare di risalire verso la luce. Se ci lasciamo risucchiare dalla dolcezza del ricordo ricadiamo giù nel buio, inghiottiti dallla rabbia e dal dolore; se tentiamo di inerpicarci verso il bagliore, abbiam paura che la luce ci accechi. E se la luce fosse un'altra ennesima delusione? E se dietro i baluginii tremanti si celasse un'altra torva voragine di oscurità?
Il ricordo permette anche di vivere. Nel dolore e nel rimpianto, ma permette di vivere. Meglio un'esistenza che si nutra di assenze che la nostra follia trasforma in presenze, piuttosto che una sopravvvivenza che si cibi di nullità allineate una dopo l'altra, in fila, ineccepibili e splendenti come sprazzi di ossessionante e muto orrore.
E così rimaniamo lì, senza salire nè scendere, attaccati al freddo della pietra, senza guardare nè in basso nè in alto, sospesi a fili sdruciti di vane speranze e timide attese, intrappolati in un limbo impreciso e frastagliato dove rassegnazione e solitudine si intersecano: terribile prigione di ghiaccio e veleno.

"Col tempo, sai, col tempo tutto se ne va.
Non ricordi più il viso, non ricordi la voce.
Quando il cuore ormai tace, a che serve cercare
Ti lascio andare, forse meglio così.
Col tempo, sai, col tempo tutto se ne va.
L'altro che adoravi, che cercavi nel buio.
L'altro che indovinavi in un batter di ciglia.
E tra le frasi e le righe e il fondotinta
di promesse agghindate per uscire a ballare.
Col tempo, sai, tutto scompare.

Col tempo, sai, col tempo tutto se ne va.
Ogni cosa appassisce e mi scopro a frugare
in vetrine di morti quando il sabato sera la tenerezza rimane senza compagnia.

Col tempo, sai, col tempo tutto se ne va.
L'altro a cui tu credevi, anche un colpo di tosse.
L'altro che ricoprivi di gioielli e di vento,
per cui avresti impegnato anche l'anima al monte,
a cui ti trascinavi alla pari di un cane.
Col tempo, sai, tutto va bene.
Col tempo, sai, col tempo tutto se ne va.
Non ricordi più il fuoco, non ricordi le voci
della gente da poco e il loro sussurrare
"non ritardare, copriti, con il freddo che fa."

Col tempo, sai, col tempo tutto se ne va.
E ti senti il biancore di un cavallo sfiancato.
In un letto straniero ti senti gelato,
solitario, ma in fondo in pace col mondo.
E ti senti ingannato dagli anni perduti.
E allora tu, col tempo, sai...non ami più"

Leo Ferrè, "Col tempo"