mercoledì 3 settembre 2008

Contrappunti disarticolati

Fatica. Quella antica, che piega ossa e muscoli, che rende stremati ma grondanti di un senso cosmico.
Fatica. Ancestrale, vecchia come il mondo, che noi ormai abbiamo dimenticato in fondo a una cassapanca impolverata.
Sembra un gioco un po' finto e forzato questa smania di recuperare certi ritmi, certi cicli, certe leggi.
Isteria scalpitante da noiose e annoiate ombre urbane.
Guardo la cima della montagna, cosparsa di nuvole terse: ero arrivata fin lassù, ce l'avevo fatta a inerpicarmi sospingendo la pesante pietra fin sulla vetta; ma poi, come per Sisifo, il mio masso è ripiombato a valle, rotolando impazzito come un'enorme biglia minacciosa, sulle piste cementificate dell'oscurità, tra le lande piatte dove ogni giorno è uguale a un altro, e il sentiero è trito e obbligato, senza più colore e fantasia.
Il rumore dell'acqua mi culla, mi rapisce. L'acqua è paziente, saggia e solerte, leviga e smussa la roccia, giorno dopo giorno; la plasma, la corrode, e non ha fretta, nè smania, perchè sa che la forza sta in quel fluire lento e inesorabile, senza contrapposizioni.
Qui tutto sembra semplice, immediato, logico, ovvio.
Una foglia è una foglia, un fiore è un fiore. Un uomo è un uomo. Non c'è spazio per la tortuosità.
Un grande maestro dalla lunga e folta barba bianca mi ha distolto, per un attimo, dalle cupe solitudini delle mie oscene ossessioni. Mi ha trascinato lungo dimensioni giocose e sapienti, di seducenti scoperte, mervigliosi prodigi, stupefacenti conquiste.
Ma l'uragano, nella notte, ricomincia a roteare.
Si aggroviglia, l'infame mostro, attorno ai suoi stessi tentacoli.
Bisogna andare in basso, nel fondo del fondo, immergersi e sguazzare nei gironi infernali per poter risalire alla luce e vederla davvero, non per semplice abitudine, ma perchè ci cosparge di bellezza.
Bisogna conoscere i propri biechi demoni e farsi violentare da essi, inermi e risoluti, come cerbiatti sull'altare sacrificale, per poter poi fare un autodafè della propria stolta e riottosa sofferenza.
Conto i sassi e i fili d'erba e tutto ha un senso che mi comprende e mi avvolge, esistente prima di me, e che esisterà anche dopo, trascendendomi. In questo senso mastodontico cerco di infilarmi, come un geco si infila agile nei buchi dei muri. Ma a volte mi sfugge, a volte lo dimentico e lo disprezzo.
L'attesa attende se stessa. La dea della pazienza sorride sardonica: è necessario inciampare nelle nostre paure, e stare immobili a lasciarle decantare.
Le assenze sono inciampi di presenze, disgregazioni distratte del tempo, ma la presenza non si può anticipare, nè procrastinare. Forse si può inventare, sfidando l'illusione della realtà.
L'assenza è una Medusa che si volta e ci trasforma in statue di pietra.
Invoco Atena, dunque, che mi faccia dono di uno scudo lucente come specchio, così, come Perseo, potrò uccidere la nefasta Gorgone.

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